CAPIRE I NOSTRI COMPORTAMENTI NEL PERIODO DELLA PANDEMIA

Capire i nostri comportamenti nel periodo della pandemia.

Un contributo delle scienze umane.

 

Dopo due anni interi (e chi l’avrebbe immaginato?) di emergenza sanitaria Covid-19, con una certa titubanza, mi accingo a condividere con chi vorrà arrivare alla fine di questo articolo alcune riflessioni. Mi sono chiesta quale contributo possono offrire le discipline che insegno e che amo, le scienze umane, nel sostenere un pensiero critico e informato, per interpretare ciò che TUTTI stiamo vivendo sul piano della comunicazione interpersonale e sociale. La mia speranza è che alcuni spunti potrebbero aiutarci a sviluppare comportamenti di resilienza e strategie di resistenza allo stress, elevando a livello riflessivo le esperienze cariche di tensioni che ci troviamo a vivere.
 

  1. Un contesto senza precedenti

 

Sin da subito, dal primo lockdown nel Marzo del 2020, la psicologia, la sociologia, l’antropologia ed altre discipline collegate allo studio a vario titolo dei fenomeni sociali, hanno avviato attività di osservazione e raccolte dati. Vorrei però segnalare alcuni elementi di grande novità rispetto alle tradizionali “ricerche sul campo”;

 

  • il primo fattore da considerare riguarda le dimensioni del fenomeno: globale, che coinvolge milioni di persone di tutte le età e di tutte le culture sparsi in tutto il mondo.
  • In secondo luogo sottolineo le condizioni in cui tale esperienza era vissuta: un isolamento forzato, caratterizzato dal distanziamento sociale e fisico ma iperconnesso attraverso i nuovi media, senza soluzione di continuità tra ciò che è individuale e ciò che è collettivo, con un coinvolgimento personale ed emotivo da gestire e riconoscere; spesso si è parlato del più grande esperimento sociale di sempre e nel prossimo futuro avremo occasione di capire la portata dei cambiamenti che a più livelli ci aspettano.
  • Infine, le caratteristiche del protagonista assoluto, il virus. Negli ultimi vent’anni non sono mancati eventi catastrofici o traumatici collettivi: l’11 settembre, il terrorismo, catastrofi naturali o per le quali la stampa, la letteratura o i media avevano delle categorie linguistiche: descrivere rappresentare significa dare forma, ricostituire un ordine, trovare un paragone con ciò che è già conosciuto. Tutto ciò è mancato nella fase iniziale della pandemia: del Covid-19 mancavano descrizioni e rappresentazioni visive: abbiamo avuto i segni tragici dell’arrivo di un elemento invisibile e sconosciuto, che può circolare attraversando ogni confine del globo terreste, rendendo ciò che sembrava lontanissimo incredibilmente vicino, capace di portare ovunque malattia e morte e suscitare una angoscia profonda quanto reale.

 

  1. Come abbiamo reagito alla paura? Comunicazioni e relazioni.

     

Tutto il mondo è stato travolto dalla paura, ma vorrei soffermarmi su due ambiti in particolare, quello della comunicazione mediatica e quello delle relazioni interpersonali. La comunicazione mediatica, non solo in Italia, ha assunto sin da subito un registro allarmistico, istituendo una ritualità collettiva del comunicato stampa o bollettino quotidiano, con dati che in realtà non erano comprensibili a tutti ma portavano regolarmente la tensione del valore che cresce. Un altro tratto evidente dello stile comunicativo è stato il ritmo frenetico con cui le notizie venivano erogate dai media e fatte circolare dalle persone attraverso le piattaforme della rete; questo ha innescato abitudini quasi compulsive di connessione e trasmissione o commento, quasi a sostanziare che la validità di una notizia è legata alla dalla velocità con cui veniva condivisa da ognuno di noi. Al registro angosciante e convulso va aggiunta una scelta lessicale con chiari rimandi alla guerra: nemico invisibile, confinamento, isolamento, chiusura delle frontiere e coprifuoco. Sin da subito l’OMS ha cercato di avvertire gli Stati che ai danni provocati dalla pandemia si stavano rapidamente aggiungendo i danni causati dalla informazione pericolosa, tanto da coniare il termine “INFODEMIA” ed invitando al controllo e alla consapevolezza. Per quanto ci riguarda dal punto di vista politico abbiamo assistito a campagne massicce da parte dei Ministeri preposti per cercare di disciplinare il flusso inarrestabile delle informazioni e delle fake news ed anche ad una assunzione di responsabilità di piattaforme social a favore della comunicazione istituzionale, anche se lo stesso non si può dire dei media tradizionali o delle rassegne stampa in rete.

 

  1. Il linguaggio e i simboli della pandemia nei social

     

Un altro elemento molto significativo della comunicazione collettiva nel primo periodo della pandemia riguarda le svariate iniziative di comunicazione che attraverso slogan o attività ancora una volta rituali, cercavano di normalizzare, di offrire messaggi positivi: chi dimentica la musica dai balconi, gli # positivi come per esempio #andràtuttobene, oppure quelli che in qualche modo regolavano il comportamento come #iorestoacasa o ancora #siamostatibravi? Non solo: di fronte alla confusione, alla precarietà e all’impreparazione abbiamo individuato o riconosciuto e narrato nuove figure di eroi, persone speciali che nel momento del bisogno hanno saputo prendersi cura degli altri e restituire un senso di fiducia, come potevano essere i sanitari che per primi hanno affrontato l’emergenza o qualche figura politica vista come particolarmente rassicurante. A distanza di due anni però di quella forma di resistenza spontanea resta molto poco, mentre invece non è mutata la sovrabbondanza di informazioni quotidiane legate alla emergenza sanitaria.

 

  1. Costruire opinioni e atteggiamenti

     

Sarebbe bellissimo riprendere alcuni grandi temi ed esperimenti della psicologia sociale per provare a raccontare come in questo contesto noi costruiamo le nostre attribuzioni di senso, le nostre opinioni o modelliamo i nostri comportamenti (ma se qualcuno fosse interessato me lo faccia sapere!).

Ben presto siamo, dopo la iniziale fase solidale, stati travolti da altri meccanismi di influenzamento; credo che il più evidente sia quello della polarizzazione degli atteggiamenti. Ci siamo lentamente ed inesorabilmente spostati verso “processi di blaming”, cioè di individuazione di colpe. E’ indicativo per esempio il dato secondo cui, all’inizio della seconda ondata, quasi il 50% delle persone intervistate ritenesse che la recrudescenza del virus fosse colpa del comportamento irresponsabile di alcune categorie di persone. Nell’ordine abbiamo avuto odiatori di runner, odiatori di possessori di cani, di bevitori di aperitivi, di chi usa le mascherine di stoffa, di chi è vaccinato e di chi non è vaccinato. Alla base di questo meccanismo di iperindividualismo (attribuire responsabilità esagerate al singolo, Bauman) ci sono diverse motivazioni, sia individuali che culturali che si sono consolidate negli ultimi anni: trovare un nemico esterno sembra essere diventato uno dei modi privilegiati per definire sé stessi, per la costituzione dell’identità personale. Questo meccanismo diventa ancora più evidente quando si parla di gruppo: identificare un nemico esterno come portatore di caratteristiche negative significa consolidare un gruppo al proprio interno, gratificare il proprio bisogno di appartenenza e di inclusione e quindi consolidare la definizione della propria identità. Un altro atteggiamento estremo, polarizzato, che ha rappresentato una risposta per affrontare una realtà che si andava sempre più destrutturando, è stato quello dell’isolamento, della purificazione, della messa in scena di ritualità rivolte alla decontaminazione a livello emotivo e sociale oltre che igienico. Purtroppo ci si sta rendendo conto che la salute mentale di bambini, ragazzi e persone fragili è messa a rischio da un tale contesto di distanziamento sociale, emotivo e comunicativo.


E poi?

 

Mi avvio a concludere, sperando di avere dato un piccolo contributo; ognuno di noi spera di sentire finalmente che l’emergenza sta finendo e mi chiedo quale sia l’atteggiamento corretto con il quale affrontare ciò che verrà dopo. Possiamo cancellare, come si fa agevolmente nelle esperienze virtuali? Eppure il virus ci ha colpito e ci ha fermato e non è vero che tutto sarà come prima, e credo che sia auspicabile l’avvio di percorsi individuali e sociali di riflessione.